Imaging: fotografia, medicina, storia…

Si dice che il grande successo della fotografia nasca dalla sensazione di avere, per la prima volta nella storia dell’uomo, fissato la realtà, cogliendo l’attimo infinito e regalando una parvenza di sensazione di immortalità. Tra gli utilizzi che ha avuto questa tecnica, c’è quello a scopo medico.

“La fotografia si basa su un processo simile a quello che ci consente di raccogliere immagini del mondo circostante attraverso gli occhi: la luce colpisce la materia, che assorbe alcune frequenze e ne respinge altre”, spiega Ezio-Maria Ferdeghini, dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. “La fotografia fissa quello che vediamo su un supporto (la lastra di Daguerre, la pellicola e oggi i sensori elettronici), descrive, documenta, scatena emozioni ma non penetra nella materia. Le immagini mediche, invece, compiono un altro percorso, quello che Rontgen propose nel 1895: penetrare nel corpo umano, vedere l’anatomia interna e il funzionamento del nostro corpo. L’imaging medicale consente una diagnosi, rilevando le anomalie rispetto un fisico o a un organo sano o normale. Sta poi all’abilità del medico o del tecnico riconoscerle come tali”.

La diagnostica per immagini utilizza radiazioni di varia tipologia: “Ionizzanti, di natura elettromagnetica (raggi X, raggi gamma ad alta energia) e particellare (alfa, elettroni, positroni, neutroni); e non ionizzanti, sia meccanico-acustiche (ultrasuoni), sia magnetiche (risonanza magnetica nucleare)”, prosegue il ricercatore del Cnr-Ifc. “L’interazione tra la radiazione e i tessuti dipende dalle caratteristiche strutturali biochimiche e fisiche dei vari organi; le immagini costituiscono mappe che descrivono la risposta fisica dei tessuti dopo interazione con la radiazione. Il clinico che le osserva può trarne un’informazione anatomica, fisiologica o metabolica dei tessuti, a seconda del tipo di tecnica utilizzata per produrle. Le diverse tecniche di indagine per immagini possono essere alternative o complementari: nel primo caso, una sola modalità è sufficiente a fornire una risposta diagnostica ottimale; si parla invece di imaging complementare quando viene fatto uso di combinazioni di metodiche (Pet-Tc, Pet-Rm, Rm-Tc), adottate per studiare più approfonditamente un determinato caso clinico, integrando contenuto anatomico con informazioni fisio-metaboliche”.

Un’ulteriore classificazione, distingue le tecniche di imaging adottate in ambito diagnostico. “Ci sono le tecniche proiettive (radiografia, fluoroscopia, scintigrafia planare, mammografia, ecografia), che producono un’immagine bidimensionale; e tecniche tomografiche (tomografia computerizzata, tomografia a risonanza magnetica, tomografia a emissione di fotone singolo, tomografia a emissione di positroni), le quali restituiscono un’informazione volumetrica degli organi del soggetto analizzato”, aggiunge Ferdeghini. “Più raramente, in diagnostica clinica è utilizzata la termografia che evidenzia le diverse temperature delle varie aree superficiali del corpo, perché il calore produce radiazioni elettromagnetiche nell’infrarosso. Con opportuni sensori è possibile evidenziare e localizzare alcune manifestazioni patologiche superficiali, come tumori della mammella e della tiroide, alterazioni del flusso sanguigno negli arti, stati flogistici della muscolatura o lesioni ischemiche superficiali”.

La fotografia classica resta comunque importante in ambito medico, soprattutto per documentare e insegnare. “Le immagini che si estendono dal mondo subcellulare fino alla descrizione visuale e dettagliata di anomalie e patologie consentono all’osservatore di conoscere tutta una fenomenologia che potrebbe incontrare anche una sola volta nella vita professionale”, precisa il ricercatore. “Non va dimentica poi la documentazione medico-legale. Mi piace, a questo proposito, ricordare un progetto del 1986, il Visible Human Project, tutt’ora in continuo aggiornamento tecnico, che nasce come strumento per aiutare alla comprensione dell’anatomia umana. Si tratta infatti di una serie di fotografie digitali ad altissima risoluzione di sezioni trasversali di corpi umani (uno maschile e uno femminile), ricavate riprendendo sottili fette ritagliate da cadaveri”.

Non di rado, poi, le immagini realistiche del corpo umano, degli organi interni e di alcune sue patologie provocano ribrezzo. “Il medico è in grado di superare la reazione istintiva, perché in lui domina l’expertise, la professionalità e la mission alla cura. Nel “laico”, invece, prevale un coinvolgimento empatico, che nasce dall’associazione più o meno cosciente dello stato patologico, e dell’esposizione di organi durante un’operazione, al senso fisico e psicologico del dolore e alla possibilità di morire”, commenta Ferdeghini. “In caso di rappresentazioni come quelle delle fiction, prevale la razionale consapevolezza che tutto è finto, ma in caso di immagini “dal vero” le cose possono cambiare e suscitare emozioni molto forti. Il ribrezzo spesso è prodotto da un’anomalia di cui non si conosce l’origine. Spesso è una questione di cultura, che va dall’accettazione della “diversità” legata all’evoluzione, o a un’anomalia genetica, fino al confronto con la patologia deformante, specie se causa un cambiamento estetico permanente (ustioni, sfregi, amputazioni o altro). C’è inoltre una reazione sviluppatasi nel corso dell’evoluzione dell’umanità di fronte a evidenze che segnalano il pericolo di contagio – penso alla manzoniana peste bubbonica o alla lebbra – se non si adottano precauzioni nel soccorrere il malato”.

Ma da un punto di vista estetico, è possibile definire dei canoni per giudicare i nostri organi interni? Un fegato, ad esempio, può definirsi più bello di un altro? “Gli organi interni non li vediamo e in uno stato di salute normale sono molto simili come forma, anche se proporzionati all’individuo di cui fanno parte e se cambiano forma o colore è perché c’è una patologia in corso, spesso grave”, conclude il ricercatore. “Quindi il canone di bellezza estetico si trasforma in canone di indicazione dello stato di salute. E credo che un medico sia poco propenso a fare il giudice in un concorso per Miss Tiroide o Mister Fegato”.
Edward Bartolucci
Fonte: Ezio Maria Ferdeghini, Istituto di fisiologia clinica, Pisa
Per saperne di più: Almanacco della Scienza

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