Occhiacci di legno

Nove riflessioni sulla distanza. Il libro indaga, da punti di vista diversi, le potenzialità cognitive e morali, costruttive e distruttive dello spaesamento e della distanza attraververso nove cappitoli della storia culturale. Straniamento. Mito. Rappresentazione. Immagine devozionale cristiana. Idoli e somiglianza. Stile. Distanza e prospettiva. Uccidere un mandarino cinese. Un lapsus di papa Wojtyla.

Il libro
“Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno.” Il libro indaga, da punti di vista diversi, le potenzialità cognitive e morali, costruttive e distruttive dello spaesamento e della distanza. Perché una lunga tradizione ha attribuito allo sguardo dell’estraneo – del selvaggio, del contadino, dell’animale – la capacità di svelare le menzogne della società? Perché la riflessione sul mito serve a distanziare la realtà, mentre il mito è spesso uno strumento politico per controllare gli ignari? Perché nel Medioevo, durante i funerali del re di Francia e d’Inghilterra, veniva portato in processione un fantoccio detto “rappresentazione”? Perché il Cristianesimo fece propria la proibizione mosaica delle immagini ma favorì da un certo momento in poi la diffusione di immagini devozionali? Perché lo stile è stato usato, a seconda dei casi, per includere o escludere ciò che è culturalmente diverso? Perché ricorriamo così spesso a metafore visive come “prospettiva” o “punto di vista”? Uccidereste un mandarino cinese sconosciuto se vi venisse offerta una grossa somma?

La nostra cultura, il nostro modo di vedere il mondo, la nostra forma mentis affondano le loro radici nell’intrecciarsi della tradizione greca, di quella ebraica e di quella cristiana, che si avvicinano e si allontanano lungo percorsi allo stesso tempo familiari e misteriosi, che dietro grandi differenze nascondono profonde analogie e viceversa. Carlo Ginzburg affronta alcuni grandi temi della nostra storia culturale partendo dalla fecondità della distanza, intesa in senso sia letterale sia metaforico. Ginzburg introduce una prospettiva non lineare che, pur non perdendo di vista l’orizzonte storico delle cose, avvicina fenomeni di tempi e spazi diversi trovando simmetrie, convergenze e isotopie.

Prefazione
Presento nove saggi (tre dei quali inediti) scritti nell’ultimo decennio; due, il secondo e l’ultimo, sono già apparsi in italiano. La distanza di cui parla il sottotitolo del libro è al tempo stesso letterale e metaforica. Dal 1988 insegno a Los Angeles. Parlare a studenti e studentesse come quelli di UCLA, con una formazione lontanissima dalla mia, diversi tra loro etnicamente e culturalmente, mi ha costretto a guardare in maniera diversa a temi di ricerca su cui lavoravo da tempo. La loro importanza non è per nulla diminuita ai miei occhi ma è diventata meno ovvia. Ho capito meglio qualcosa che credevo di sapere già, e cioè che la familiarità, legata in ultima analisi all’appartenenza culturale, non può essere un criterio di rilevanza. Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno. So di non dire niente di nuovo, ma forse val la pena di riflettere ancora sulla fecondità intellettuale di questa condizione. Ho provato a farlo nel saggio sullo straniamento che apre la raccolta. Ma anche il più antico, quello sulla rappresentazione nasce dalla volontà di spaesare chi legge, e prima ancora me stesso, comprimendo un tema immenso in poche pagine, immergendo l’Europa e l’Italia in un quadro cronologico e spaziale amplissimo.

Mi sono imbattuto in una duplice ambiguità: quella legata all’immagine, che è al tempo stesso presenza e surrogato di qualcosa che non c’è, e quella legata ai rapporti tra ebrei e cristiani in cui prossimità e lontananza si sono intrecciate per due millenni con conseguenze spesso funeste. Queste ambiguità convergono nel tema dell’idolatria, evocato nel titolo del libro, e discusso nel saggio su idoli e immagini. Esso si chiude bruscamente accostando il primo e secondo comandamento del decalogo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna”, “Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Sulla contiguità tra nome e immagine sono tornato indagando sul mito. I greci hanno raffigurato i loro dèi e ne hanno pronunciato i nomi, hanno ragionato sulla natura dell’immagine e su quella del nome. Ma questa apparente opposizione tra greci ed ebrei forse nasconde una simmetria nascosta: la riflessione greca sul mito, così come la proibizione ebraica dell’idolatria, sono strumenti di distanziazione. Greci ed ebrei, in modi diversi, hanno cercato di elaborare strumenti per guardare criticamente la realtà, senza farsene sommergere. Il cristianesimo si è opposto ad entrambi, ha imparato da entrambi. Sono un ebreo nato e cresciuto in un paese cattolico; non ho mai avuto un’educazione religiosa; la mia identità ebraica è in gran parte il frutto della persecuzione. Quasi senza rendermene conto mi ero messo a riflettere sulla tradizione molteplice cui appartengo, cercando di guardarla da lontano, se possibile criticamente.

Dell’insufficienza della mia preparazione ero, e sono, del tutto consapevole. Seguendo il fili delle citazioni scritturali sono arrivato a rileggere i vangeli, e la stessa figura di Gesù, da un punto di vista per me inatteso. Ancora una volta ho ritrovato l’opposizione tra ostensione e narrazione, tra morfologia e storia: un tema inesauribile, che mi appassiona da tempo. Ne ragiono, da vari punti di vista, nel secondo, quarto, quinto e sesto saggio. Una riflessione iniziata dai greci ha consentito di scoprire ciò che accomuna, pur nella loro diversità, immagine, nome e mito: l’essere situati al di là del vero e del falso. È una caratteristica che la nostra cultura ha esteso all’arte in generale. Ma le finzioni artistiche, come quelle giuridiche, parlano della realtà. Lo dimostrano tanto il saggio sullo straniamento (il primo) quanto quello, per certi versi speculare, sul mandarino cinese: là la distanza giusta, qui l’eccesso di distanza; là l’assenza di empatia come distanza critica, qui l’assenza di empatia come disumanizzazione. Ma ormai il tema delle mie riflessioni, innescate dalla distanza, era diventato la distanza stessa, la prospettiva storica Allora mi sono accorto di avere scritto questo libro.

Carlo Ginzburg
Collana: Universale Economica Storia
Feltrinelli Editore
Pagine: 256

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