Immagine Counseling psicologico

risponde il dr. Vincenzo Masini

Ha una storia d’amore con un compagno che ama. Ma anche due lavori che li portano a stare lontani. Scegliere tra lavoro e vita affettiva? E’ una risposta fin troppo facile, scrive la nostra lettrice. Ma nulla che valga davvero la pena è mai troppo facile.

La vita non è semplice

“Caro Dottor Masini, leggo la risposta che ha dato al ragazzo di vent'anni che ha la ragazza che studia a 400 km di distanza. Lei dice che bisogna decidere se è più importante l'amore o gli impegni. È una risposta troppo facile. Ci sono situazioni, e la mia è una di quelle, in cui gli impegni sono di lavoro e rappresentano l'unico modo di costruire un futuro, di preparare un'indipendenza economica necessaria alla vita insieme. Io sto facendo un dottorato di ricerca e per varie ragioni sono costretta a partire per circa sei mesi per un progetto da continuare all'estero. Il mio ragazzo ha un lavoro molto buono che lo porta ogni mese in uno stato diverso dell'unione europea, con ritorni a casa di meno di una settimana. Lui sembra disposto a sacrificarsi adesso in vista di un futuro insieme (anche ciò se non potrà essere prima di un anno o due), e sembra sopportare bene la situazione. Io invece, nonostante cerchiamo di vederci almeno ogni due settimane, incontrandoci per il we, soffro e divento a volte aggressiva nei suoi confronti. Per me non è la prima storia lunga e sarei davvero disposta a sacrificare tutto pur di vivere con lui e magari di avere un figlio. Ho l'età e il desiderio per farlo. Lui è una persona matura ma forse ancora non così vicina a queste cose come mi sento io. Nonostante questo però, è un dato di fatto che quello che ognuno sta costruendo per sé (il lavoro che ciascuno di noi ha cominciato prima di conoscere l'altro) è anche necessario per un futuro insieme. Come si può scegliere in questi casi tra amore e 'impegni'? E non potendo rinunciare a nessuno dei due, come convivere con una situazione così straziante? A volte mi viene voglia di allontanarmi da lui solo per non stare più male... “

Confermo quanto, con semplicità, dicevo, rendendolo, come si deve di fronte ad intellettuali, complesso.
Il nucleo centrale del problema è il dottorato di ricerca: conosco la "malattia dell'universitario" e ne ho visto le conseguenze in un altissimo numero di colleghi, ed ho visto la malattia della "progettazione internazionale" e ne ho compreso la trappola. Questo modello di attività si presenta con un alto livello di autoreferenzialità giustificativa: sono lavori importanti nei quali è in gioco un alto livello di autostima che si rinforza mediante l'immagine sociale e la pseudosacralità della "mission", sia essa scientifica che aziendale o sociale.
La struttura motivazione che sta alle spalle dell'affezione a questo tipo di lavori sembra perfettamente disegnata sulla teoria dell'autoefficacia di Bandura, ovvero una processualità che mescola identità individuale e sistema di riferimento giocando sul filo della possibile esplicitazione dei valori latenti.
Valori mai resi aperti e discussi, se non nelle prolusioni accademiche o nei meeting aziendali, anche se sempre aulici e poco coniugabili con la realtà quotidiana del lavoro. Del resto i tre elementi costitutivi del lavoro (reddito, soddisfazione personale e immagine) sono raramente raggiunti pienamente se non da un basso numero di persone, le quali, per raggiungere tale bersaglio debbono per forza rinunciare ad altre dimensioni delle loro vite personali.
Lo spostamento verso la realizzazione nel lavoro in ambienti come i vostri diventa così totalizzante che assomiglia alle professioni sacralizzate (il prete, il militare, il volontario, ...) che emergono sulle scene del mondo, rinforzate dai mass media, mediante un processo psicologico di attribuzione - anche forzata - di senso.
L'appartenenza a contesti nei quali il lavoro appare come una giustificazione di tutto, a sua volta giustificata dalla difficile e infinita carriera che impegna nella prosecuzione delle scelte oltre ogni limite di saggezza in ragione dell'enorme difficoltà di raggiungere gli obiettivi prefissi. Nel suo caso il dottorato, poi il concorso per ricercatore, poi le supplenze per qualche insegnamento, poi l'associatura, poi il concorso per ordinario, poi la direzione di un dipartimento, poi la presidenza di una facoltà, poi il rettorato e, contemporaneamente, la partecipazione a gruppi di ricerca nazionale, poi internazionale, poi i convegni, poi i seminari, poi i gruppi di lavoro, poi la partecipazione ad associazioni, ecc.
Lei pensa sicuramente di fermare i suoi interessi molto prima - ed è probabile - ma il vero problema è che quando si rinuncia a qualcosa di importante come un amore poi ci si chiede perché rinunciare e il processo di attribuzione di senso alla possibilità di "andare in cattedra" diventa essenziale e determinante. Conosco tanti colleghi universitari che hanno vissuto tali obiettivi alla stregua di malattie ossessive. Il proprio ruolo diventa tutto. E per questo ruolo si giunge a sacrificare tutto con lotte al coltello e conflittualità esasperate. E non potrebbe essere altrimenti vista la progressione delle rinunce che richiedono tali scelte, alle quali è delegata la propria autostima.
Non è un caso che lei mi scriva.
E che nella sua lettera tenti di smontare la mia risposta "semplice". Lei conosce nel suo inconscio tutto ciò che le sto dicendo ma l’attrattiva è troppo forte e la narrazione di significato che nel suo ambiente circola intorno al proprio "essere universitari" è ormai penetrata sotto la pelle divenendo parte di lei, tanto da condurla a pensare "a volte vorrei allontanarmi da lui per non stare troppo male"... Capisco la sua sofferenza perché l'ho vissuta ed ho fatto le mie scelte, di cui sono ben felice.
Il problema però non è solo il "lavoro" (sarebbe molto più semplice se lei gestisse un'edicola di giornali e lui facesse l'installatore di condizionatori, tra l'altro guadagnando molto di più! il che dice tutto sull'esca dell'autostima). Ma voi due chi siete? Qual'è la vostra relazione?
Che significato ha nella vostra vita? La vostra è un’attrazione, una simpatia, un’infatuazione, un innamoramento? Che fondamenta ci sono nel vostro rapporto? Su cosa costruite? Cosa significa l'attesa? E’ un processo per cui sperimentate la distanza come momento di riflessione che precede scelte importanti o è una scusa per non impegnarsi in una relazione di coppia a cui, in fondo, non credete?
E, sul piano teorico, le coppie in crisi dipendono dalle scelte di lavoro fatte o sarebbero comunque in crisi perché è il modo contemporaneo di pensare alla coppia che non funziona più?
Scrivo queste ultime cose per bilanciare il mio counseling per lettera dopo aver provato a smontare le vane attribuzioni di senso al lavoro giacché anche la scelta di coppia, specie se fatta senza comprenderla a fondo, può essere un rischio totalizzante. La vita non è mai stata semplice ed oggi richiede scelte tremendamente serie.
In ogni caso tutta la mia simpatia e i miei auguri.
Masini

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