Una patata al giorno… leva il medico di torno

È il Caiapo, estratto dalla buccia della patata, il nuovo rimedio naturale per la cura del diabete. Gli effetti benefici sono stati accertati da ricercatori dell’Istituto di ingegneria biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Isib-Cnr) di Padova, insieme ai colleghi della Terza clinica medica dell’università di Vienna.

Una dieta quotidiana basata su cibi semplici e poveri ha sempre difeso l’uomo da alcune malattie. Recentemente è stato accertato che la patata, che non è mai mancata sulle tavole dei “poveri”, ha proprietà anti-diabete. Soprattutto in presenza del diabete mellito, di tipo II, cioè quello non insulino-dipendente.
La ipomea batatas, in particolare, una patata dolce di origine sudamericana, coltivata nella regione giapponese di Kagawa, viene mangiata cruda dalle popolazioni locali che, hanno constatato i ricercatori, non soffrono di alcune malattie come l’anemia, l’ipertensione e il diabete. Anzi le curano con l’estratto della sua buccia, il Caiapo, già in commercio in Giappone.
I ricercatori dell’Istituto di ingegneria biomedica del Cnr di Padova, in collaborazione con i ricercatori dell’università di Vienna hanno potuto constatare che il Caiapo, testato su un campione della popolazione europea affetta da diabete di tipo II, ha la proprietà di ridurre la glicemia basale, il colesterolo e l’emoglobina glicata con conseguente miglioramento dello stato generale della salute del paziente.
“Abbiamo potuto accertare – spiega Giovanni Pacini, ricercatore dell’Isib-Cnr e responsabile della ricerca – un aumento della capacità dell’insulina di favorire la scomparsa di glucosio dal sangue. I risultati dello studio, pubblicato su Diabetes care giornale ufficiale della American diabetes association, dimostrano con certezza – conclude Pacini – che l’estratto della buccia di patata può essere un utile agente naturale nel trattamento del diabete”.

Colera: il corpo si difende producendo endocannabinoidi
Un gruppo di ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche dell’Università Federico II di Napoli ha scoperto, come dimostra uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista Gastroenterology, che l’intestino in seguito ad intossicazione da tossina colerica può produrre “a richiesta” l’endocannabinoide anandamide per difendere il corpo. Su Science CNR e Max Planck Institute tedesco dimostrano che l’anandamide viene prodotta in risposta ad una condizione patologica nota come “eccitotossicità da glutammato”, che è responsabile, tra l’altro, di attacchi epilettiformi nel topo.
A 30 anni di distanza dall’epidemia di colera che colpì la Provincia di Napoli, un gruppo di ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Pozzuoli (NA) e dell’Università Federico II di Napoli ha studiato il ruolo dei cosiddetti endocannabinoidi – molecole prodotte dai tessuti animali con meccanismo d’azione simile a quello dei cannabinoidi della marijuana – nell’intossicazione da tossina colerica, l’ipersecrezione intestinale e la conseguente diarrea e disidratazione. I ricercatori del Dipartimento di Farmacologia Sperimentale della Facoltà di Farmacia dell’Università di Napoli “Federico II”, coordinati da Angelo Izzo, e dell’Istituto di Chimica Biomolecolare del CNR di Pozzuoli, guidati da Vincenzo Di Marzo hanno scoperto, come risulta da uno studio appena pubblicato dalla prestigiosa rivista Gastroenterology, che l’endocannabinoide anandamide è prodotto “a richiesta” dall’intestino in seguito ad intossicazione da tossina colerica e, attraverso l’attivazione dei recettori dei cannabinoidi, presenti oltre che nel cervello anche nei neuroni enterici, riduce significativamente l’ipersecrezione intestinale. Dato interessante dal punto di vista terapeutico è che trattando i topi con inibitori sintetici della degradazione dell’anandamide si riesce ad ottenere lo stesso tipo di protezione.

Non è la prima volta che un ruolo di “protezione a richiesta” viene proposto per gli endocannabinoidi, come esemplificato da un altro articolo sullo stesso numero di Gastroenterology dal gruppo di Di Marzo per quanto riguarda l’effetto anti-proliferativo su cellule di carcinoma colorettale in vitro. Infatti, una funzione protettiva sembra essere esercitata anche nel sistema nervoso centrale. Un ulteriore studio, che verrà pubblicato domani sulla prestigiosa rivista Science, e condotto al Max Planck Institute of Psychiatry di Monaco di Baviera da B. Lutz in collaborazione con il gruppo del CNR di Vincenzo Di Marzo, ha mostrato che l’anandamide viene prodotta in risposta ad una condizione patologica nota come “eccitotossicità da glutammato”, che è responsabile, tra l’altro, di attacchi epilettiformi nel topo. Una volta sintetizzata “a richiesta” in seguito al danno neuronale, l’anandamide attiva il recettore dei cannabinoidi solo su alcuni neuroni dell’ippocampo, ed induce una cascata di effetti neuroprotettivi che tendono a minimizzare le conseguenze negative dell’iperattività neuronale. Anche in questo caso un inibitore della degradazione dell’anandamide produce lo stesso tipo di protezione!
Sebbene si parli molto oggi del possibile impiego terapeutico dei cannabinoidi da marijuana, va sottolineato che questi studi evidenziano un ruolo protettivo dei cannabinoidi endogeni i quali, a differenza da quelli somministrabili attraverso l’eventuale assunzione della marijuana, agiscono solo “su richiesta” e limitatamente a quei tessuti coinvolti in un certo stato patologico. Tali studi aprono quindi la strada allo sviluppo di farmaci non solo a partire da molecole in grado di attivare direttamente i recettori dei cannabinoidi, ma anche di sostanze che, inibendo la degradazione degli endocannabinoidi, ne prolungano gli effetti benefici …”da dentro”.

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